Perchè proprio in Thailandia ??

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Perch?roprio in Tailandia ??

E” la domanda che mi feci io nel 1987 quando i miei amici decisero per quella vacanza.
Partimmo senza convinzione, pensando che sarebbe stata un”altra vacanza da raccontare agli amici ed invece fummo catapultati in un esperienza nuova che ci lasciò qualcosa di diverso e minò molte delle nostre certezze.


L”aeroporto era in costruzione, una moltitudine di gente si accalcava verso la dogana in quel che sembrava un cantiere aperto, il primo impatto fu di caos totale.
Usciti dall” aeroporto l”afa era terribile ti attanagliava il respiro, non ti faceva ragionare, senza quasi accorgersene un tassista ci caricò le valigie e ci ritrovammo dentro al taxi.
Scrutavamo dal finestrino per vedere qualunque cosa, un palazzo, un monumento, ma niente era come ci immaginavamo. In quella Babele non vedevano niente di positivo, pensammo di aver sbagliato vacanza.

Era mattina presto, ma dopo una doccia eravamo già sulla Sukhumvit Road.
Non era il primo viaggio che facevamo, ma noi abituati alla provincia, Bangkok ci sembrava ancora più enorme di quello che era. Il continuo brulicare di persone di tutte le età , i marciapiedi pieni di persone che camminavano in modo scomposto, i chioschetti improvvisati che cucinavano le cose più strane, la gente che si sporgeva impaziente per cercare un Tuc Tuc.
Avevano tutti un gran daffare, gli unici tranquilli erano quelli che aspettavano l”autobus con aria rassegnata.
Eravamo gli unici occidentali, ma la gente non ci notava, ci sentivamo un pò inutili non avevamo meta, ne uno scopo, tra tutte quelle persone che sembravano avere cose importanti da fare.

Fù lì che ci venne l”idea, una missione impossibile, trovare Chian.
Chian era un Tailandese che parlava italiano e faceva una specie di guida turistica, diciamo free lance, conosciuto da un nostro amico un anno prima. Quest”ultimo ci aveva fornito il suo indirizzo che noi avevano preso con non curanza, ma fortunatamente custodito nel portafoglio.
I primi due tentativi andarono a vuoto, perché i guidatori di tuc-tuc non capivano cosa c”era scritto, ma fummo fortunati con un tassista. L”indirizzo probabilmente era un pò generico perché ci lasciò in una zona decentrata di Chinatown, spiegandoci che più o meno era lì.
Quando scendemmo dal taxi, era come avessimo fatto migliaia di chilometri, non c”era più il traffico di prima, le scritte delle insegne avevano geroglifici diversi e poche persone passeggiano lungo la via.
C”erano solo negozi e officine, ma guardando meglio erano garage di abitazioni adibite a qualunque commercio e artigianato. Le merci erano accalcate senza ordine e improbabili commesse si ciondolavano su vecchie sedie.
Tutti avevano un garage e tutti vendevano o producevano qualcosa.
La cosa più curiosa erano le officine. C”era chi saldava con 40 gradi e le bombole di ossigeno ed acetilene (immagino) erano quasi sul marciapiede, chi verniciava cerchioni di camion e automobili, chi lavorava barre e trafilati, ma anche chi tagliava fogli enormi di lamiera con una roditrice accanto alla porta delle scale.
Compressori d”aria facevano bella mostra sul marciapiede e trafilati in ferro erano appoggiati sui muri delle case. Guarnizioni, cuscinetti, tutta roba usata erano accalcati in questi piccoli garage, lo spazio non bastava ed allora appendevano al soffitto qualunque cosa tramite dei ganci e c”era anche quello che vendeva solo i ganci.
Rimanemmo incantati, ad ogni angolo c”era una sorpresa, avevamo le competenze più svariate nell”ambito lavorativo, ma ognuno di noi si fermava davanti ad un officina che produceva qualcosa a lui familiare. Pensavamo di saperne più di loro e ci veniva naturale cercare di dare consigli sui metodi di lavoro, destammo così una certa curiosità.

Continuammo la ricerca di Chan ma non fù facile neanche qui, però un vecchio lo conosceva per nome e ci accompagnò sotto casa sua. Era un palazzone alto con i condizionatori alle finestre.
Suonammo il campanello ma non sapevamo cosa dire, lui rispose in Tailandese, la porta del palazzo era aperta e noi entrammo, ma questa è un”altra storia.


Era sera tardi avevamo mangiato e sballati dal fuso orario decidemmo di andarcene a letto, ma c”è sempre qualcuno che ha un”idea brillante, e i massaggi? Esclamò Beppe.
Allora si favoleggiava su questo argomento, informazioni di terza mano parlavano delle mille e una notte, qualcuno giurò che un suo lontano parente era guarito da una sciatalgia cronica.
L”adrenalina aveva iniziato a circolare e così con due taxi partimmo per non so dove. Il nostro tassista era un pò apatico ma gli bastò sentire la parola "massage" per tornare a nuova vita.
Iniziò a parlare ininterrottamente fino a convincerci che la sua sala massaggi era la migliore. C”e la ritrovammo davanti come per incanto.
Il palazzone era scrostato e l”insegna dipinta a mano aveva delle lettere scolorite, ma tant”è che con un pò di buona volontà si poteva leggere Turkis Bath Massage.
Il posto non era illuminato ed eravamo chissà dove nella periferia di Bangkok ma non ci preoccupammo troppo, l”unica obiezione la ebbi io esclamando : ma come, siamo in Tailandia e ci facciamo un bagno turco ?
Non venni preso in considerazione ed entrammo.
Non c”era nulla, solo un tavolo e quattro sedie al centro della stanza. Il Boss ci offri della coca-cola spiegandoci come funzionava il tutto, anche se noi capivamo ben poco.
Poi ci accompagnò in una stanza accanto dove vi era una tribunetta in legno con una quarantina di ragazze urlanti. L”imbarazzo era totale, ma aumentò quando ci fece fare un giro sulla tribunetta.
Tra il grido "sexi man" e le palpate delle ragazze la situazione era davvero imbarazzante. L”unica cosa che notai è che le ragazze erano davvero brutte.
Il boss chiese allora cosa avevamo deciso. La voglia era quella di andarsene, ma qualcuno disse che era meglio non contrariarli molto, vista la situazione.
E così visto che la sensazione che avevo avuto era probabilmente condivisa, la risposta all”unisono fu "ONLY MASSAGE".

Il giorno dopo rivivemmo quei momenti in tono goliardico, raccontandoci la pochezza tecnica di quello che doveva essere un massaggio.
Solo XXX stava in disparte leggendo e rileggendo un biglietto che aveva fra le mani, non lo notammo quasi, ma al momento di andare al Palazzo Imperiale ci comunicò che lui non sarebbe venuto.
Aveva lo zainetto in spalla, le scarpe da ginnastica e la piantina in mano, aveva avuto l”indirizzo della massaggiatrice ed aveva strappato un mezzo appuntamento.
Deciso a rispettare l”impegno partì a piedi in una impresa che per noi era dovuta al caldo del primo pomeriggio.
Non avemmo sue notizie per più di tre giorni, eravamo preoccupati e decisi ad andare alla polizia, ma comparve improvvisamente una mattina a colazione accolto da un ovazione.
Sposò quella ragazza cinque anni dopo.


Era facile allora andare a casa della gente, sembrava la cosa più naturale di questo mondo.
Una sera ero a casa dalla famiglia di Chan che mi aveva promesso un giro a Thomburi ma fui folgorato dalla televisione Tailandese.
La sua famiglia sparecchi&og
rave; in men che non si dica, c”era qualcosa di strano nell”aria, un brivido di eccitazione aveva coinvolto l”ambiente, anche il vecchio cane sembrava accorgesene.
Spostarono divano e sedie, la cucina diventò salotto. Fù così che notai la televisione.
Non dava molta fiducia, il capofamiglia si avvicinò e con rito liturgico sistemò con cura il piedistallo, alzò con delicatezza l”antenna, inserì la spina e spinse l”interruttore.
Erano attimi di tensione, lo schermo rimase nero per qualche secondo, poi un bagliore improvviso, i colori diventavano sempre più nitidi e le immagini meno traballanti. Si era accesa.
Trasmettevano un film di terrore tipo anni trenta dove gli effetti speciali erano gli sdridii di un vecchio grammofono e la capacità interpretativa degli attori era disarmante, ma ogni cambio di scena, ad ogni salto di pellicola nella piccola stanza echeggiavano urla di terrore, le mani coprivano gli occhi e ci si rannicchiava sempre di più dietro quel sofà color lilla.
Nessuno vedeva più nulla, ma quel sonoro così in crescendo faceva aumentare esponenzialmente le urla.
Mi immedesimai molto in quella scena già vissuta da piccolo, quando con mio padre vidi il film Gianni e Pinotto contro l”uomo lupo.


Pucket era già nota, ma Patong Beach sembrava solo un villaggio cresciuto in fretta. Vi erano già hotel e ristoranti, ma soltanto una quindicina di bar e naturalmente il Banana. Appena fuori Patong le spiagge di Kata erano deserte e senza strutture, le strade sterrate e le indicazioni in Tailandese. Non c”era molto da fare se non vita di mare, così decidemmo di andare all”imbarcadero e prendere il primo traghetto che portasse in qualche isola vicina.
Il traghetto o quello che era faceva rotta su un piccolo arcipelago dal nome curioso Phi Phi.
Raggiunto l”arcipelago non potevamo credere ai nostri occhi.
Il mare si confondeva con il cielo e pareti rocciose si ergevamo maestose coperte di vegetazione. Non vi erano altre imbarcazioni e compreso l”equipaggio, eravamo solo una quindicina di persone sul battello, tutto quel paradiso era per noi.
Quando vedemmo la spiaggia di Ton Sai rimanemmo incanti, la sottile lingua di spiaggia che costeggiava l”isola brillava alla luce del sole e le palme sembravano disposte ad arte.
Non aspettammo che il battello attraccasse, non potevamo resistere al richiamo di quel paesaggio e ci tuffammo.
L”acqua era calda, brulicante di pesci colorati per nulla spaventati dal nostro arrivo.
Una volta sull”isola quello che meravigliava era il silenzio, ci sembrava di essere in altra dimensione. Non so se fosse suggestione ma ci sentivamo dei novelli Robinson Crosue.
Con nostro grande stupore scoprimmo che l”isola non era disabitata, ma che una piccola comunità di pescatori viveva all”interno dell”isola e cerano anche dei bungalow !! Sette per la precisione.
Non ci facemmo pregare, mai decisione fu così unanime all”interno del gruppo, affittammo due bungalow tramite un ragazzo dell”equipaggio e lo pregammo di venirci a riprendere il giorno dopo, ma che se anche si fosse anche dimenticato non sarebbe successo nulla.
I bungalow erano situati all”interno dell”isola, erano in legno arredati in modo spartano ma non impersonale e naturalmente non c”era l”acqua corrente ma una tinozza con un mestolo. Avevano una graziosa veranda ed erano all”ombra delle palme.
Non essendoci portati niente facemmo i nostri acquisti in un improvvisato shopping center gestito dagli abitanti dell”isola, fornito di prodotti locali.

La mattina dopo, appena sveglio, mi affacciai sulla veranda e con mio stupore notai che il bungalow dava sulla parte opposta all”isola dove attraverso le palme si vedeva il mare.
Mi incamminai verso la spiaggia, era una baia bellissima i cui contorni erano disegnati dalle rocce che si chiudevano a semicerchio e l”acqua del mare entrava filtrata da un faraglione centrale.
L”incanto si spezzò quando camminando sulla spiaggia deserta vidi in lontananza una persona dalle movenze occidentali, quando ci incrociammo la sua fisionomia mi parve familiare, dopo un saluto di circostanza mi sentii apostrofare con la classica frase: sei italiano ? Era di Faenza (20 Km da casa mia) ed era il padrone della pizzeria dove andavo di solito. Parlammo in dialetto e capii che era il momento di tornare.


Il nostro amico di Faenza ci disse che c”era una sauna all”interno dell”isola, gestita dai monaci, ma che era molto difficile raggiungerla, vuoi per le indicazioni, vuoi per i sentieri al limite dell”impraticabile. Raccogliemmo immediatamente questa sfida e dopo aver noleggiato un pik up ci inoltrammo all”interno dell”isola.
Non fù certo facile, ma tra tronchi d”albero che ostruivano la strada e corsi d”acqua che si mischiavano al terreno, arrivammo a destinazione.
Entrammo tranquillamente nel cortile del loro monastero col nostro pik up come se fosse casa nostra.
La nostra imprudenza aveva di fatto provocato una forte diffidenza, ma noi non ce ne eravamo accorti.
Giravamo, guardando e curiosando qua e là, ma stava crescendo in noi una sensazione strana. I monaci si comportavano come se noi non esistessimo, il loro sguardo ci passava da parte a parte
Si comportavano normalmente ma era come se noi non fossimo mai stati lì. Non era una sensazione piacevole. Capimmo di aver sbagliato qualcosa. Qualunque rimedio però era inutile, non ascoltavano le nostre parole ci ignoravano completamente.
Salimmo di nuovo sul pik up parcheggiandolo fuori dal cortiletto, ci togliemmo le scarpe e ricominciammo tutto da capo entrando con aria più umile.
Di primo acchito non avevamo sortito un gran effetto, ma tentando di parlare con un giovane monaco, questo si consultò con altri monaci più anziani e ci venne incontro sorridendo.
Ci fece da guida all”interno del cortile con un perfetto inglese, mostrandoci la loro scuola, i giacigli dove dormivano e ci raccontò della volta che era stato a Singapore.
Rispose a tutte le nostre domande sul loro stile di vita, poi ci accompagnò alla sauna che a quel punto non ci interessava più granchè.
La sauna era formata da tre loculi in muratura all”aperto, socchiusi da una tenda in pelle. Ogni stanzetta aveva un grado di calore diverso ed il malcapitato doveva passare da una all”altra
Sembrava una gara ad eliminazione, il caldo era tremendo e l”odore della pietra vecchia si mischiava con l”aria.
Questa sauna era gestita da una ragazzina che ti attendeva con un mestolo pieno d”acqua per rinfrescarti e ti offriva coca-cola (ti offrivano sempre coca-cola, pensavano fosse il massimo per un”occidentale). Il tutto era offerta libera.

Raccogliemmo le nostre cose, un pò stravolti dal caldo e salutammo con l”inchino, pensando come avremmo fatto a ritrovare la strada per Patong.


Ci erano bastati pochi giorni per capire che eravamo venuti in contatto con un”altra civiltà, antica come noi e di cui non sapevamo nulla.
Nulla a che vedere con quello che conoscevamo già, il divertimento del Sud America e le isole tropicali dei Caraibi, dove tutto sembra diverso ma poi scopri che le differenze sono sempre più sottili, dove il fine giustifica i mezzi .
Non avevamo nulla in comune con loro, attori, cantanti, scrittori. La televisione non aveva ancora uniformato idoli, gusti e tendenze.
La loro filosofia ci appariva semplice, ma accidenti, loro la mettevano in pratica quando ci dicevano che era inutile arrabbiarsi .
Non capivamo come ragionavano, cosa pensavano. La loro apparente ingenuità ed il loro senso di rispetto ci avevano messo subito sul chi va l&a
grave;. Non era possibile che quella gentilezza al limite del servile non nascondesse qualcos”altro. Dovevamo indagare ma la vacanza era finita.


L”anno seguente non tornai in Tailandia al contrario dei miei amici. Ci tornai solo qualche anno dopo e continuo ancora oggi a tornarci, non cerco niente, vorrei solo sapere se ho sognato.

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